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Tre considerazioni sul mosaico

Un articolo di Gian Paolo Bortone

Ogni volta che ritorno a Otranto sono rapito dalla nostalgia. Sono innamorato di Otranto, nonostante abbia vissuto in moltissime città più grandi, famose e più belle. E tra tutte le bellezze di Otranto, quella che da sempre ho amato di più è lo splendido mosaico che riveste il pavimento della Cattedrale. Opera del monaco Pantaleone, commissionata dal vescovo Gionata, questa esplosione di figure, animali e personaggi ha eccitato la mente e la fantasia di numerosi studiosi o semplici turisti, tanto che nel tempo sono state avanzate numerose proposte di lettura per tentare di dare ordine a un materiale ampio, vario ed enigmatico. Non ho la presunzione di proporre una lettura unitaria del mosaico (non ci sono riusciti studiosi certamente più preparati di me, come Chiara Frugoni e il rimpianto mons. Grazio Gianfreda, per anni parroco della Cattedrale, studioso del mosaico e infaticabile divulgatore del suo significato). Propongo, invece, tre riflessioni laterali che non mi sembra siano state finora sottolineate.

1. Il mosaico è un pavimento

La prima riflessione parte da un dato di fatto banale: il mosaico è un pavimento. Come al solito, però, le cose evidenti sembrano essere quelle che colpiscono di meno l’immaginario. Un pavimento è costruito perché venga calpestato. Nel caso del mosaico, non si tratta, però, di una pavimentazione qualsiasi, ma del pavimento di una chiesa e questo elemento ha un suo significato teologico strutturale, se pensiamo ai criteri con cui venivano costruite un tempo le Chiese. Si dice che Giustiniano abbia fatto impastare la malta dei mosaici di Santa Sofia a Costantinopoli con le ossa dei martiri cristiani. Si tratta di un simbolo molto forte: i misteri teologici che risplendono in quei mosaici sono tenuti insieme da quanti li hanno professati nel martirio che, a sua volta, è comprensibile esclusivamente se legato a quei contenuti di fede. Una chiesa si regge su questa commistione. Parallelamente, il mosaico di Otranto si presenta come la struttura che sorregge il cammino del fedele: la sua fede poggia su una storia rivelata, ma anche pagana, tenute insieme dai rami dell’albero della vita, teatro lungo il quale si dipana l’economia della salvezza. Appena si varca la soglia, allora, il fedele è inserito all’interno di un cammino che lo mette in comunione, come un tralcio attaccato alla vite, con una storia di salvezza e di redenzione.

2. Una scuola di inculturazione

Molto si è detto e scritto sul Mosaico: influenze della cabbala, dello gnosticismo, addirittura un cammino iniziatico che avrebbe a che fare con i Templari e il Santo Graal. Ovviamente lo studioso ha il compito di discriminare questo materiale che a volte segue un po’ le mode del tempo.
In primo luogo, però, il mosaico è un manifesto teologico medievale. Attorno all’albero della vita, infatti, ruotano tutti gli elementi che il medioevo riesce a raggrumare: dalle tradizioni popolari (per esempio è stato ipotizzato che la figura di un animale, ai piedi dell’albero, che indossa dei calzari solo sulle zampe sinistre, possa essere un antecedente popolare del Gatto con gli stivali) alla cultura orientale, da quella islamica a quella ebraica. Tutta la vita e le tensioni storico-culturali vengono rilette in termini cristiani, secondo la cultura e le tradizioni del tempo. Ad esempio, una guida alla comprensione dell’albero della vita ci viene dal Fisiologo, opera ellenistica del II-III sec. d.C. divenuta famosa nel Medioevo perché accompagnava le sue descrizioni del mondo animale (che tanto affascinava l’universo medievale) e ne forniva un’interpretazione allegorica e religiosa. Secondo il Fisiologo, l’albero peridexion è immagine del Padre di tutte le cose: mangiare i suoi frutti porta letizia, pace, moderazione. Tuttavia, è possibile anche restare prigionieri delle passioni cattive, figlie prima di tutto della brama di potere, del desiderio di possedere. L’albero si sviluppa, allora, nella contrapposizione tra bene e male, intesi non come principi ontologici, ma come scelte che l’uomo è chiamato a compiere.
In definitiva, il mosaico rappresenta un manifesto teologico basato sull’idea di una teologia che oggi definiremmo dell’inculturazione. Personaggi storici e creature fantastiche, protagonisti biblici e figure storiche convivono uno accanto agli altri, secondo una visione specificamente ebraica della storia: il tempo presente trova la sua illuminazione e senso solo a partire dal suo inizio, creando una tensione apocalittica (in questo senso, ricordo che l’albero del mosaico non si legge dalle radici che, comunque sono assenti, ma dall’alto verso il basso). Questa tensione, però, trova una sua contraddittoria e paradossale espressione nella visione ciclica della vita che asseconda l’alternarsi delle stagioni e dei cicli naturali. Non a caso, dopo la caduta di Adamo ed Eva, il ciclo di Artù e l’uccisione di Abele, il mosaico presenta il ciclo dei mesi dell’anno: dodici medaglioni in cui, accanto all’indicazione del segno zodiacale, vengono descritte le attività tipiche del mese. Il lavoro è infatti una conseguenza dell’interruzione del legame relazionale tra Dio e l’uomo intervenuto con il peccato, ma è anche possibilità di nuova vita.

3. Pantaleone e la biopolitica

Ovviamente Pantaleone non poteva sapere che cosa fosse la biopolitica. Quando ne parliamo, infatti, intendiamo quella declinazione tipica dei governi e degli stati moderni che, una volta compreso che la propria forza risiede nella salute dei propri cittadini, hanno iniziato ad occuparsi di benessere, salute, vita, morte, sessualità dei singoli, originando pratiche di governo e processi orientati alla «popolazione» e organizzati secondo criteri economici. Queste operazioni hanno finito per operare una trasformazione del soggetto che era integrato o marginalizzato a seconda dell’adesione a criteri di normalità prestabiliti. La biopolitica è quindi testimonianza di una manipolazione dell’umano. È interessante notare, però, che questa manipolazione risiede esattamente sulla differenza tra uomo e animale, una differenza che è sancita dal possesso del logos che promuove l’uomo a «custode», se non padrone del creato e, in definitiva, «misura di tutte le cose».
Nel mosaico di Otranto uomini e animali sono messi uno accanto all’altro; nella zona del presbiterio, come immagini della condizione umana successiva al peccato originale e della redenzione troviamo Adamo, Eva, il Toro e Behemot (simboli di superbia e rimando all’episodio del vitello d’oro dell’Esodo?); poi il Dromedario, l’elefante, la lonza, il Sagittario, il cervo ferito, l’antilope, l’unicorno; la regina di Saba e Salomone, la Sirena, il Leopardo e l’Ariete. Si tratta di una commistione tra uomini e animali tipica del medioevo che aveva un particolare interesse per gli animali, tanto che erano molto in voga i bestiari (una specie di cataloghi di animali fantastici e dove trovarli…). C’è, per esempio, una famosa miniatura di una Bibbia ebraica che presenta il banchetto della fine dei tempi in cui i giusti mangeranno le carni del Leviatano e di Behemot. In questa miniatura, i giusti hanno sembianze di animali, quasi a dire che, alla fine dei tempi, l’umanità compiuta avrà i tratti dell’animale.
È probabile che sia il mosaico che la miniatura facciano riferimento a Is 11,6 («il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà») e a quell’ideale per cui, alla fine dei tempi, l’uomo si sarebbe riconciliato con la sua natura animale che, dopo la creazione, in virtù del male compiuto dall’uomo, era stato pervertito. Ma, se riflettiamo questa immagine a partire dalla letteratura filosofica dedicata alla biopolitica, essa rappresenta un’ambiguità. Perché l’uomo deve avere una forma animale? L’animale, allora, è divenuto immagine dell’addomesticamento dell’uomo alle logiche del potere. La signoria dell’uomo sul creato si è trasformata nel suo assoggettamento alle logiche del biopotere che, classificando atteggiamenti e sancendo la normalità, ha trasformato l’uomo in animale. Il mosaico, però, non trasforma l’uomo in animale: uomini e animali condividendo il comune destino di redenzione sancito dall’opera di Cristo (nella figura di Giona) sono il segno di una relazione non conflittuale e non addomesticata, di una vita non più sotto il segno della governamentalità e domesticazione, ma della libertà che nasce dall’unico legame che conta: quello con Dio.

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